Il Centro Commerciale
by Angelica Gregorini
La nostra meta era un edificio al centro della città abbandonata, mi chiesi come mai non fossero partiti da lì nella ricostruzione, ma sorvolato l’angolo capii: una voragine si allargava al centro della strada, al suo interno erano crollati un paio di edifici ed i pochi rimasti in piedi avevano un’aria così pericolante che solo a guardarli sentii un vuoto nello stomaco.
Continuammo ad avanzare fino ad un palazzone rettangolare su cinque piani dall’aspetto troppo solido per quel posto; rovinosamente a terra, sull’angolo destro dell’ingresso riposava una vecchia insegna di metallo corroso dalle intemperie.
«Aspettate qui, non ho ancora controllato bene l’interno, se dovesse esserci qualcuno sentirete il segnale e ve ne andrete» disse Akio con lo sguardo vuoto: «State attenti alla mamma» aggiunse, ignorando la linguaccia scherzosa di Odi, ci diede le spalle ed avanzò all’interno della costruzione tenendo una mano sulla fila di siringhe che gli pendeva sulla coscia sinistra.
«Sapete cos’era questo edificio?», ci chiese nostra madre con gli occhi che le luccicavano, io e Gotaro scuotemmo la testa; il sorriso sul suo volto si allargò; adoravo il bagliore che le illuminava i grandi occhi verdi quando sorrideva.
«Era un centro commerciale!», io e Gotaro non cambiammo espressione, non avevamo la più pallida idea di cosa quell’associazione di parole volesse significare.
«Un posto dove le persone potevano venire a comprare tantissimi tipi di cose! Ci saranno un sacco di negozi lì dentro!», aggiunse lei entusiasta, io e mio fratello ci guardammo stupiti, non avevamo mai visto nemmeno un vero negozio, i pochi beni in nostro possesso, soprattutto cibo ed utensili per il campeggio, nostro padre li aveva barattati con delle persone in cambio di qualche favore che non si era mai dato la briga di descriverci: «Non è importante il tipo di aiuto che si dà, l’importante è darlo», Akio era un tipo di poche parole, di cui la maggior parte erano massime snervanti, ma credo che a questo punto il suo modo di fare sia piuttosto chiaro.
«Chissà che non troviate qualcosa che vi possa piacere, magari potrei anche convincere vostro padre a farvi portare un paio di cose quando ci sposteremo di nuovo!», davanti alla mia espressione scettica, Odi alzò gli occhi al cielo.
Ci volle almeno un’ora prima che mio padre tornasse dalla sua ispezione per farci cenno di entrare, oltre l’ingresso ci aspettava una struttura enorme con i pavimenti corrosi dal tempo e gonfi di umidità con punti in cui si intravedeva il cemento alla base. Dritto davanti a noi sorgevano due scale in metallo corroso dalla ruggine, separate da un’altra scala di un materiale che in origine doveva essere stato marmo, ma le cui caratteristiche erano ormai coperte sotto spessi strati di sporco appiccicoso.
La sensazione di vuoto che regnava in quel posto mi colpì allo stomaco, ovunque si fermasse lo sguardo c’erano stanze in cui regnava il caos o il vuoto assoluto; l’insieme del tutto mi fece pensare all’immagine di una carcassa di animale abbandonata alle intemperie.
«Possiamo fare un giro tra le stanze papà?», chiese Gotaro speranzoso, Akio sembrò riscuotersi dall’ennesima riflessione e rispose:
«Quelli erano negozi…», poi aggiunse: «Certo, ma fate attenzione e a qualsiasi rumore sospetto scappate e usate il segnale».
Il segnale di cui parlava era un fischio acuto emesso dai fischietti che tutti noi portavamo appesi al collo, non erano mai stati usati per motivi seri. Di solito io e Gotaro li usavamo per svegliarci a vicenda quando l’altro dormiva profondamente; il gesto di solito era accompagnato da una piccola rissa che terminava con Gotaro con un livido da qualche parte e la faccia imbronciata.
Non ci eravamo mai permessi di scherzarci su con mio padre però.
Alle parole di Akio io e mio fratello ci guardammo con entusiasmo e scattammo verso il lato destro dell’edificio, mentre papà accompagnava la mamma su per le scale.
«Ci trovate nel terzo negozio a sinistra del quarto piano, non fate tardi», aggiunse mio padre.
Superammo una decina di negozi vuoti e semi distrutti, soffermandoci ogni tanto per osservare i tumuli di oggetti impilati ed impolverati; Gotaro riuscì a trovare un paio di canne da pesca facilmente rammendabili, le nostre ormai erano quasi inutilizzabili:
«Possiamo usare i pezzi delle nostre per aggiustare queste, che ne pensi?», mi chiese Gotaro speranzoso, ammiravo molto il senso di responsabilità di mio fratello, il suo primo pensiero era il benessere di tutti, a differenza mia; mi capitava spesso di chiedermi come fosse possibile che fossimo davvero fratelli, non ci somigliavamo nemmeno fisicamente.
Gotaro era magrolino, tutt’ossa, con vispi occhi verdi come mia madre ed una chioma di ricci folti biondo cenere, la pubertà sembrava non tenerlo per niente in considerazione e la “dieta” che facevamo non lo aiutava a mettere un po’ di carne sulle ossa. Era anche, probabilmente, la persona più affidabile del pianeta, sempre pronto a darmi una mano a coprirmi quando mio padre mi accusava di allontanarmi da solo di notte, cosa che facevo spesso.
A mia discolpa posso dire che soffro d’insonnia, le poche ore che il sonno mi concede sono sempre tempestate di immagini terrificanti, di figure striscianti che cercano di trascinarmi chissà dove; preferisco restare sveglio anche se le giornate di cammino spesso mi sfiancano.
Nonostante ciò la notte restava il mio momento preferito della giornata, forse perché era l’unico in cui mi sentivo veramente solo. Con Akio la privacy era un lusso che non ci era concesso, a volte anche quando sgattaiolavo via mi sembrava di riuscire a sentire il suo fiato sul collo. La notte mi concedeva un po’ di respiro, quel briciolo di libertà che desideravo.
Non avrei abbandonato la mia famiglia per niente al mondo, il pensiero di lasciare mia madre o Gotaro mi faceva venire la nausea. Sarebbe stato come abbandonare due bambini indifesi.
«Mi stai ascoltando?», mi chiese mio fratello leggermente irritato, mi riscossi dai miei pensieri e farfugliai una frase di assenso, lui alzò gli occhi al cielo: «Te la prendi tanto con papà per il suo modo di fare, ma sei un musone pensieroso come lui», aggiunse per punzecchiarmi, con noncuranza lo spinsi giù dal tumulo di attrezzi da pesca in rovina in cui stava rovistando, finì di nuovo a terra a massaggiarsi le natiche, ma sul viso aveva un sorriso che non mi piaceva per niente, quando sorrideva in quel modo stava architettando qualcosa che, nella maggior parte dei casi, era uno scherzetto fastidioso dei suoi.
Non riuscii nemmeno a finire di articolare quel pensiero che una matassa di muffa viscida mi si spiaccicò in faccia.
Cercai di toglierla, ma era di una consistenza così melmosa che finii per spalmarmela ancora di più addosso: «Maledetto bastardo!», gli ringhiai tra i denti e sentii la sua risatina farsi sempre più distante, stava scappando ovviamente, sapeva di non poter reggere una vera scazzottata, e gliene avrei dati di pugni per compensare quella puzza acida e umidiccia che mi stava riempiendo i polmoni.
Adorabile certo, una delle persone più buone al mondo senza dubbio, ma Gotaro restava anche uno degli esseri più fastidiosi con cui l’umanità fosse mai venuta a contatto.
Lo rincorsi per tutto il piano terra dell’edificio finché non lo trovai immobile davanti ad un enorme buco nel pavimento, avrei voluto mollargli almeno un ceffone, ma qualcosa nella sua espressione mi bloccò.
Guardava in basso assorto, incuriosito mi avvicinai e vidi che all’interno del buco c’erano le rovine di un negozio e quella che sembrava carta spalmata sui resti; mi sporsi un po’ di più e scorsi scaffali ammassati gli uni sugli altri, su di essi sembravano esserci dei piccoli libri, anche quelli gonfi di umidità.
«Che dici, scendiamo a dare un’occhiata?», mi chiese Gotaro, lo guardai sorpreso, non era da lui calarsi in un buco umido, ma io non aspettavo altro.
Scendemmo con attenzione, arrivato giù aiutai mio fratello ed insieme ci sporgemmo verso uno degli scaffali più in alto per guardare cosa vi fosse riposto.
I titoli erano diventati macchie di colore ed erano impossibili da decifrare.
«Aiutami», disse Gotaro, lo presi per i fianchi e lo sollevai, prese tutto quello che era rimasto sullo scaffale.
Non facemmo in tempo nemmeno a guardare una pagina di quei libri che sentimmo la voce di mio padre richiamarci da lontano; in fretta e furia infilammo tutto nei nostri zaini e ci sbrigammo a raggiungerlo.
Quella notte Gotaro restò sveglio insieme a me a sfogliare quei libricini, inizialmente non ci capimmo nulla, poi lui ebbe l’idea di sfogliarli al contrario.
Il primo manga che lessi nella mia vita è stato il volume due de “Le Bizzarre Avventure di Jojo”.