Apatia
by Angelica Gregorini
Sembrava che tutti avessimo perso la capacità di parlare, o sorridere; mia madre faceva fatica anche a mangiare.
Mio padre sembrava ancora più tormentato, Gotaro si sentiva tremendamente in colpa nonostante anche la mamma lo avesse rassicurato.
Non era colpa di nessuno, avevano paura, stavano correndo ed erano scivolati; ma nessuna di quelle parole sembrava avere effetto su mio fratello che ultimamente tendeva ad isolarsi sempre di più.
Mi avvicinai a lui con la ciotola di brodaglia che fungeva da colazione, pranzo e cena; Gotaro era seduto su un masso coperto di muschio che gli aveva macchiato i pantaloni grigi, prese la tazza dalle mie mani con un cenno di ringraziamento ed iniziò a sorseggiarne il contenuto con gli occhi fissi sul fiumiciattolo accanto al quale ci eravamo accampati.
Non ci eravamo allontanati troppo dalla città abbandonata, la mamma era distrutta; aveva continuato a sanguinare per un paio di giorni e spesso i crampi la facevano piegare dal dolore; tutti quanti avevamo bisogno di riprenderci da quello che era successo.
L’immagine della testa recisa di Jona mi perseguitava come uno spettro vendicativo ogni volta che chiudevo gli occhi; la mia mente si divertiva a tormentarmi.
Akio, se possibile, mi evitava ancora più di quanto non facesse di solito; ogni tanto lo beccavo a lanciarmi occhiate di sottecchi per poi distogliere subito lo sguardo.
Non avrei aspettato ancora a lungo prima di tempestarlo di domande e lui lo sapeva bene; non osai chiedere nulla a mia madre, per quanto si sforzasse di sorridere a me e a Gotaro quando le parlavamo, nei suoi occhi si vedeva chiaramente quanto stesse soffrendo.
Erano anni che provavano ad avere un altro figlio, per quanto la vita che conducessimo non fosse idilliaca avevano ancora tanto amore da dare.
Allungai una mano per toccare la spalla di mio fratello, lui si voltò a guardarmi e rabbrividii.
Fino a qualche giorno prima i suoi lineamenti erano quelli di un bambino un po’ cresciutello, ora sembrava essere dimagrito ancora di più ed il suo viso era più spigoloso, gli occhi più scuri, le sopracciglia più folte.
Una folata di vento gli spalmò una ciocca di riccioli bagnati sulla fronte, prese la ciocca con aria assente e disse: «Credo sia arrivato il momento di tagliarli, che dici?» anche la sua voce era diversa, ma non seppi se imputare questo cambiamento alla pubertà che aveva finalmente fatto capolino anche con lui o al tormento che gli infestava gli occhi.
«Credo che stiano bene anche così», gli risposi, ma lui non sembrava mi stesse ascoltando, continuò a rigirarsi la ciocca bagnata tra le dita mentre la pioggia continuava a battergli sul viso.
«Credo sia arrivato il momento di tagliarli», ripeté, bevve l’ultimo sorso di brodaglia e mi porse la ciotola, poi si allungò verso la nuova canna da pesca che avevamo da poco riparato, la guardò quasi con disprezzo; come se quello che era successo potesse essere imputato a quell’oggetto inanimato.
Lanciò l’amo nel fiume ed iniziò a pescare.
«Potremmo pescare più tardi, abbiamo già qualcosa per la cena; magari potremmo ripararci nella tenda…
«Zitto, spaventi i pesci!», disse con lo sguardo ancora fisso in avanti; lo accontentai e lo lasciai solo.
Quando fui vicino alla mia tenda notai mio padre appoggiato ad un albero, anch’esso coperto di muschio verdognolo; stranamente i suoi occhi stavolta erano chiaramente puntati su di me, ricambiai lo sguardo e mi fece cenno di seguirlo dentro la tenda; iniziai a sudare freddo ma lo seguii senza fiatare.
Una volta entrati si sedette a terra a gambe incrociate; anche lui sembrava invecchiato molto negli ultimi giorni; se prima i fili grigi tra i suoi capelli erano un ornamento raro, ora si amalgamavano ai ricci biondo cenere in modo omogeneo, le rughe intorno agli occhi sembravano più marcate e le occhiaie scure più profonde. Si allungò indietro per prendere i fiammiferi per accendere il fuocherello che usavamo per riscaldare il piccolo ambiente; quel movimento fece tintinnare la fila di siringhe appese al cinturone; quel rumore mi fece venire i brividi e mi portò alla mente il momento in cui si era conficcato una di quelle siringhe nella coscia prima di affrontare Jona.
Akio seguì il mio sguardo fino al cinturone e scosse la testa:
«È ancora troppo presto per questo argomento, Sakküra; ma oggi ti racconterò qualcosa», lo guardai stupito mentre assumevo la sua stessa posizione a terra, accanto al fuoco.
«Credo però sia meglio che decida io da dove cominciare», riprese lui. Pff, figurati, pensai.
Lui colse il fastidio sul mio viso e si lasciò scappare un sorriso, si stropicciò gli occhi tirando un respiro profondo.
«È frustrante, vero? Ci sono passato anch’io», aggiunse.
«Basterebbe che tu rispondessi semplicemente alle mie domande; ma a quanto pare non ho neanche il diritto di farle!», risposi irritato; lui annuì: «Hai ragione, ma c’è una motivazione», alzai gli occhi al cielo, ovviamente neanche questa “motivazione” mi veniva spiegata, come facevo a non infastidirmi?
In quel momento nella tenda entrò Gotaro, bagnato fradicio come lo eravamo tutti; si fermò sulla soglia e sul suo viso apparve uno sguardo di sorpresa.
«Entra Gotaro, stavo per raccontare una faccenda importante a tuo fratello, è giusto che l’ascolti anche tu.
«Non voglio saperne niente», rispose lui laconico, si voltò ed uscì di nuovo chiudendosi la tenda alle spalle.
Feci per seguirlo, ma mio padre mi fermò: «Ognuno ha i suoi tempi, ha già le sue battaglie.
«Non ha nessuna battaglia, non è colpa sua quello che è successo!», esclamai furioso, Akio scosse la testa e qualcosa nel suo sguardo mi persuase dal correre dietro a mio fratello; mi misi di nuovo seduto pronto ad ascoltare quello che aveva intenzione di raccontare, lui si schiarì la gola ed iniziò a parlare.