Il Gatto Nero
by Angelica Gregorini
Era passato un anno dalla rivelazione di mio padre, ogni volta che guardavo mia madre pensavo a quanto una persona così buona avesse dovuto sopportare.
Gotaro era diventato l’ombra di sé stesso, ma il corpo magro aveva sviluppato una muscolatura asciutta, un accenno di barba aveva iniziato a crescergli sul viso; senza dubbio il vero cambiamento era avvenuto all’interno.
Spesso mi svegliavo solo nella nostra tenda, le sue uscite notturne erano diventate più frequenti delle mie e Odi sembrava sempre più preoccupata per le occhiaie sotto i suoi occhi.
Inaspettatamente non ero riuscito a giudicare mio padre anche dopo quel racconto orribile e decisi che forse aveva ragione a non volermi svelare tutti i suoi segreti; se erano tutti della portata dell’ultima rivelazione era meglio aspettare.
Forse Akio si era sentito capito, forse si sentiva ancora di più in colpa; fatto sta che aveva iniziato a tenere più in considerazione i miei consigli.
Quell’inverno Odi, rimasta fortemente debilitata dall’aborto, aveva preso una forte influenza e lui non aveva battuto ciglio prima di accettare la mia proposta di fermarci a Karu, una delle città ricostruite ad est di Nihon; era in una posizione abbastanza sicura, accerchiata dalle montagne che davano in strapiombo sull’oceano.
Arrivarci non fu molto facile; cercavamo di evitare le vie principali ed i passi di montagna non erano il massimo, soprattutto con mia madre in quelle condizioni. Quando era particolarmente stanca, Gotaro si offriva di portarla in spalla, aveva anche costruito un’imbracatura in grado di distribuire meglio il peso e si rifiutava di fare a turno per trasportarla.
Ci stabilimmo nelle periferie, in modo tale da distare poco più di un’ora di cammino dalla città e da poter facilmente tenere sotto controllo il perimetro intorno al nostro accampamento.
Mentre nostro padre completava il montaggio delle tende io e Gotaro ci dirigemmo in città alla ricerca di un medico.
La città ci stordì all’inizio, non eravamo abituati a tutti quei colori e tra quell’ammasso di persone era difficile orientarsi.
Indossai un cappuccio che mi copriva fino a metà volto, dovevamo trovare aiuto, ma anche stare attenti a non farci notare troppo. Era Gotaro ad avvicinarsi alle persone per chiedere dove potessimo trovare un medico e, nonostante il suo aspetto sicuramente meno inquietante del mio, molti lo scansavano senza neanche starlo ad ascoltare.
Avevamo girato quasi tutta la città sotto quella pioggia costante senza riuscire a parlare con mezza persona quando mi sentii strattonare per una manica.
Guardai in basso cercando di tenere gli occhi coperti dal cappuccio, ma il mio interlocutore era un bambino e dalla sua prospettiva era impossibile non notarli. Con mia sorpresa non accennò il minimo interesse alla mia stramberia, gli occhi erano severi ed ostinatamente puntati nei miei: «Io so dove trovare un medico», disse solamente. Fu Gotaro a chinarsi verso di lui, il ragazzino si mise in punta di piedi per sussurrargli qualcosa all’orecchio, mio fratello annuì, si voltò verso di me e mi fece cenno di seguirlo.
Il bambino era vestito di stracci dai colori più disparati, i piedi erano nudi e coperti di tagli; i capelli scuri rasati e le orecchie avevano una forma bizzarra, sembravano leggermente appuntite. Ci guidò in uno dei distretti estremi più poveri della città; non seppi spiegarmi bene cosa fosse a tenermi in allerta, forse i visi scavati dalla fame, forse lo sporco che ci circondava. Avevo i nervi a fior di pelle ed il pensiero che mia madre fosse ammalata ad aspettarci non aiutava.
Finalmente si fermò davanti ad una piccola casa dal soffitto basso che aveva un’aria decisamente più pulita degli altri edifici lì intorno.
«Aspettate qui», disse ed entrò.
Aspettammo una ventina di minuti, dall’interno non sembrava venire nessun suono e noi iniziavamo a dare segni d’impazienza.
Mi avvicinai alla porta e la spinsi con delicatezza, questa si aprì senza fare il minimo rumore; “Strano”, pensai; feci un passo in avanti e mi guardai attorno, niente.
Accennai a Gotaro di seguirmi e mi avviai verso l’interno.
Il mobilio era accatastato sul lato destro della stanza: un materasso su cui era stata gettata una pesante coperta rammendata, un piccolo armadio con un’anta socchiusa ed un tavolino con tre gambe, di cui la quarta era stata sostituita con una pila di qualcosa che somigliava a dei libri che non riconobbi, l’unica luce era quella che filtrava dalla finestra con i vetri oscurati da vernice grigio argento; sul tavolino pericolante c’era un fornello da campeggio ed accatastate a fianco ad esso piccole bombolette di gas.
Sul lato sinistro della stanza spiccava un tavolo di ferro, incredibilmente lucido, su cui erano appoggiati vari strumenti chirurgici, dietro il tavolo svettava un alto mobile in cui erano impilate varie fiale di liquidi dai colori più disparati ed erbe essiccate di tutti i tipi; almeno sembrava che il ragazzino ci avesse davvero condotti nella casa di un medico; ma di lui non c’era traccia ed io e mio fratello non avevamo idea di cosa fare.
Anche Gotaro si guardò intorno incuriosito, poi m’indicò una porta dritta davanti a noi; pensammo che probabilmente il bambino era entrato lì quando la porta si aprì ed uscì un gatto nero, quello ci scrutò con occhi troppo attenti per un animale e mi fece venire i brividi.
Subito dopo ne uscì anche il bambino:«Il dottore non c’è, ma io sono il suo assistente, potete dire a me quello che vi serve.
Io e mio fratello ci guardammo stupiti, poi Gotaro spiegò i sintomi di mia madre mentre il ragazzino ascoltava attento, lo sguardo del gatto era fisso su di me e sembrava non battere ciglio.
«Ditemi dove vivete e manderò il dottore da voi appena sarà di ritorno.
Di nuovo il mio sguardo e quello di mio fratello s’incontrarono, non sapevamo se fosse una buona idea rivelare la nostra posizione ad uno sconosciuto, seppure fosse un bambino; ma nostro padre doveva averlo tenuto in considerazione, altrimenti non ci avrebbe mandati a cercare un dottore.
La posizione del nostro accampamento doveva essere rivelata se volevamo che nostra madre stesse meglio; feci un cenno di assenso a mio fratello che spiegò nel dettaglio dove trovarci, non potevamo rischiare che il medico si perdesse.
Il ragazzino gettò uno sguardo al gatto che staccò gli occhi da me solo un secondo per incrociare quelli del bambino e tornare fissi nei miei.
«Perfetto, lo riferirò al dottore il prima possibile; credo potrà essere da voi entro stasera.
Un pensiero mi balenò nella mente: “Non abbiamo denaro però”, mi pentii subito di essere stato così stupido da dirlo in quel momento, le possibilità che il ragazzino riferisse di noi al suo padrone si sarebbero azzerate una volta saputo che non avrebbero ricevuto nessun compenso.
«Avete da mangiare?», ci chiese il bambino senza battere ciglio.
«Si, ne abbiamo, non molto però.
«Al dottore basterà una cena, non ha bisogno di soldi», rispose senza aggiungere altro.
“Wow, allora esistono ancora persone che non si sono lasciate divorare dall’avarizia”, pensai mentre salutavamo il bambino e tornavamo di corsa alle nostre tende.
La mamma era peggiorata, la febbre era salita e non si era ancora svegliata.