L'Esplosione
by Angelica Gregorini
Aveva coinvolto Gotaro nel suo piano di fuga, con mia grande sorpresa; quella sera sarebbe stato lui di ronda e ci avrebbe coperti con mio padre se avesse fatto domande.
Sgattaiolammo fuori dalle nostre tende a notte fonda, quando Gotaro ci diede conferma che Akio era profondamente addormentato.
Il percorso era sgombro e semplice da ricordare: «Sarà una cosa veloce, non si accorgeranno mai che ci siamo allontanati», mi aveva rassicurato. Mi stupii del fatto che fossi diventato io il fratello responsabile, non avrei mai immaginato che Gotaro avrebbe sostenuto un’impresa così fuori dal quotidiano; forse non conoscevo davvero mio fratello.
L’appartamento era al piano terra di un palazzo che su per giù doveva essere alto quindici metri in origine, ma gli ultimi cinque erano rovinosamente crollati.
Ahmya mi mostrò la finestra di cui mi aveva parlato e mi fece strada verso l’entrata del palazzo.
Quello che restava della porta d’ingresso dell’appartamento era praticamente inutile, metà del legno gonfio di umidità era abbandonata sul pavimento e l’altra penzolava ancora attaccata al cardine inferiore, ci bastò scavalcarla per entrare.
Mi fece cenno di aspettare, si trasformò in gatto e si avviò per perquisire l’appartamento.
Tornò dopo cinque minuti in forma umana e sorridendo mi prese per mano e mi tirò via con sé.
La libreria si trovava in una stanza abbastanza grande con un divano sfondato, accanto al quale c’era un tavolino con su un paio di piante decisamente morte.
La libreria prendeva tutta la parete dove c’era anche lo spettro della porta da cui eravamo entrati ed era piena zeppa di manga.
Ahmya mi teneva ancora per mano e si mise ad esaminare uno degli scaffali più in alto, dove i manga erano meno rovinati; fece per prenderne uno ma era troppo in alto per lei, mi avvicinai e lo presi con facilità. Mentre glielo porgevo mi rivolse un sorriso gigante, poi iniziò a sfogliarlo incuriosita.
Fu in quel momento che la sentii.
Una pressione insopportabile, qualcosa di pulsante sembrava stesse cercando di sfondarmi il cranio dall’interno.
Mi accasciai bruscamente, portandomi le mani alla testa sperando di riuscire a trattenere quell’esplosione.
Sentii le mani di Ahmya posarsi sulle mie spalle, la vista era diventata offuscata perciò non riuscii a vederla mentre mi guardava preoccupata, né riuscii a sentire le domande che mi rivolgeva.
Iniziai a sudare mentre quel pulsare non dava cenni di voler diminuire.
Non lottare, non ne vale la pena, disse qualcuno direttamente nella mia testa.
Cosa cazzo significava “non lottare”? Mi si stava per spaccare il cranio in due ed io non dovevo fare nulla per impedirlo?
Rabbia, panico, frustrazione e dolore erano diventati una cosa sola.
Cercai di riprendere il controllo su me stesso e trovai il viso di Ahmya a pochi centimetri dal mio, stava dicendo qualcosa, ma non riuscivo a sentirla; nella mia mente rimbombava l’eco della voce che ripeteva “Non lottare, non lottare, non lottare”; sentivo che presto sarei impazzito dal dolore.
Lei mi prese il volto tra le mani e mi strinse a sé mentre la vedevo urlare qualcosa al vuoto.
Stavo per cedere, quando un calore improvviso pervase tutto il mio corpo.
Una fiamma che cresceva, un fuoco che divampava; poi da me schizzò fuori un denso fumo nero come la pece ed il dolore cessò.
Mi sembrò che il fumo avesse preso sembianze umane, come quando mio padre aveva separato la sua anima dal corpo; ma quella figura non mi assomigliava: era molto più alta, con il viso molto più scavato e lo sguardo molto poco amichevole.
Tornerò, disse nella mia testa e svanì in un attimo.
Mi stavo ancora riprendendo quando mio padre fece irruzione della stanza grondando acqua e sudore; mi afferrò per le spalle e mi rivolse una marea di domande a cui non ebbi la forza di rispondere.
«Dobbiamo portarlo alla sua tenda», disse freddamente rivolto ad Ahmya, lei annuì e si trasformò in orso.
Ricordo solo il ciondolare regolare del suo passo e la pioggia che mi batteva sul viso, poi il vuoto.
Mi dissero che avevo dormito per tre giorni senza mangiare né bere, tanto che stavano vagliando l’ipotesi di una flebo per mantenermi idratato, ma la fiducia di mio padre nei confronti di Ahmya sembrava sfumata.
Mi sentii tremendamente in colpa, se non fosse stato per me non ci avrebbero mai scoperti.
Akio era terribilmente apprensivo, non si allontanava mai dal mio capezzale, persino mia madre passava meno tempo con me rispetto a lui.
Ahmya, invece, non si era fatta vedere, gli infusi ricostituenti che faceva me li portava mio padre e sembrava non avessi il permesso di parlare di lei con lui.
Quando mi fui ripreso abbastanza da parlare gli raccontai cosa era successo e cercai di fargli capire che Ahmya non aveva colpe, l’avevo seguita di mia volontà.
Appena menzionai il fumo nero che aveva preso forma mio padre s’irrigidì.
«Che aspetto aveva?», mi chiese.
Glielo descrissi, gli dissi che mi assomigliava parecchio, ma che ero sicuro del fatto che quella non fosse la mia anima.
Lui rimase in silenzio per qualche minuto e non me la sentii di interrompere la sua riflessione.
«Credo che tu debba sapere una cosa, Sakküra», disse con tono grave.
«Una sola?», gli chiesi ironico, cercando di spezzare la tensione che si era creata nella tenda, fallii miseramente.
Lo sguardo di mio padre si fece tremendamente cupo, poi mi disse che forse era meglio che anche mia madre e Gotaro fossero presenti ed uscì.
Sentii l’ansia stringermi lo stomaco, i secondi che passavano sembravano interminabili.
Quando tutti e tre entrarono nella tenda vidi la tensione sui loro volti ed ebbi paura di cosa mio padre stava per raccontare.
Si sedettero accanto al mio sacco a pelo, mia madre prese una mano di Akio tra le sue e gli fece un cenno d’incoraggiamento, lui chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e quando li riaprì disse:
«Sakküra, tu non sei nostro figlio.