Un Mondo Ostile e Materialista

by Angelica Gregorini

Era una giornata come tante, in uno dei posti desolati di sempre; lì l’umanità non era ancora arrivata a ricostruire.

“Figurati se il vecchio poteva scegliere un posto più accogliente stavolta”, pensai gettando uno sguardo a Gotaro in piedi su un masso mentre cercava di tenersi in equilibrio su una gamba sola; alle sue spalle Odi lo guardava con fare apprensivo.

Odi era la madre perfetta, severa e dolce sempre al momento opportuno; comunicare con lei era piacevole e si riuscivano ad imparare sempre cose nuove; anche se parlare per me era decisamente meglio, la danza delle sue mani spesso m’incantava.

Avevamo imparato il linguaggio dei segni insieme alle semplici parole sin dall’infanzia, inizialmente io e mio fratello non capivamo come mai nostro padre ci rispondesse a voce, mentre la mamma solo con i gesti. Papà ci aveva accennato che la mamma non era sempre stata muta, ma le era successa una cosa molto brutta e da quel momento non era più riuscita a parlare.

Forse anche per questo non avevo avuto chissà quale esperienza con le parole; i miei unici interlocutori erano Gotaro e mio padre, Akio; decisamente un uomo di poche parole. Eppure la sua mente sembrava lavorare sempre molto a giudicare dalle rughe profonde che gli segnavano un solco tra le sopracciglia mentre osservava l’orizzonte.

Eccolo lì, distaccato dal gruppo di almeno cinquecento metri e a stento distinguibile a causa del perenne acquazzone che abbracciava quelle zone come una maledizione, stava di nuovo scrutando l’orizzonte alla ricerca di chissà cosa; spesso anche la mamma lo guardava e scuoteva la testa, ma in quel momento i suoi occhi erano puntati su di me; quando incrociai lo sguardo di mia madre le sue mani si mossero veloci:

«Concedi un po’ di tregua a quell’anima in pena!», ma stava sorridendo.

Ci prendeva sempre in giro quando ci tenevamo il muso: «L’asino musone per testardaggine cadde in un burrone!», ci ricordava spesso mentre ci canzonava.

Io e mio padre andavamo d’accordo per la maggior parte del tempo, ma su alcuni punti mi rifiutavo di cedere ed accettare semplicemente un: «Perché è meglio così», come risposta.

Come al solito l’argomento di discussione era il fatto che neanche questa volta ci aveva concesso di fare sosta in una delle città ricostruite che distavano davvero poco dal nostro percorso.

Non c’era stato modo di farlo ragionare, neanche parlare di cibo, della mamma che avrebbe potuto riposare dignitosamente o del fatto che, in mezzo a tante persone, sarebbe stato più difficile trovarci e quindi più semplice per noi nasconderci.

Questo era un altro argomento di cui Akio non aveva alcuna intenzione di dare spiegazioni: per quindici anni io e Gotaro avevamo vissuto una vita errante insieme ai nostri genitori, consapevoli che qualcuno ci stesse seguendo, di conseguenza non dovevamo allontanarci troppo né separarci per alcun motivo; ma chi fosse a seguirci non ci era mai stato rivelato, chiedere informazioni al riguardo poteva portare a due sole reazioni da parte di nostro padre: un mutismo da fare invidia ad Odi, o irritazione per aver messo in dubbio la sua autorità.

«Inizio a dubitare che sia vero, sai? Sono anni che facciamo questa vita ed abbiamo avuto così pochi contatti con altre persone che potrei contarli sulle dita di una mano», avevo detto a Gotaro un pomeriggio in cui ci era stato concesso di allontanarci un po’ di più dalle tende, sempre a costo di tornare entro un paio d’ore.

«Perché dovrebbe inventarsi una cosa del genere?

«Non ne ho idea, ma altrimenti come te lo spieghi?», gli chiesi guardandolo negli occhi, Gotaro era quel tipo di persona che si fidava ciecamente, non era tipo da mettere in dubbio le buone intenzioni di nostro padre ed i miei dubbi spesso lo destabilizzavano.

Persino mia madre si rifiutava di rispondere alle mie domande: «Tutto a suo tempo, Sakküra», ma quel benedetto tempo non arrivava mai e a quindici anni quell’ignoranza mi stava già stretta.

  

Mio padre si riavvicinò al gruppo, silenzioso come sempre, si guardò di nuovo intorno; eravamo zuppi fino al midollo, la pioggia rendeva l’asfalto dissestato scivoloso ed infido, continuavo a non capire cosa riuscisse a vedere dato che noi, con quella pioggia fitta, a stento potevamo  metterci a fuoco l’un l’altro.

Ma lui sembrava perfettamente padrone della situazione, con il tintinnio delle siringhe che portava appese al cinturone ad accompagnare ogni suo passo; gli scarponi che calpestavano le pozzanghere incuranti, con superiorità; non era certo un po’ d’acqua dal cielo ad intimorire Akio, almeno finché non fosse diventata acida.

Prese una mano di mia madre tra le sue, se la portò alle labbra e vi appose quello che ad un osservatore poco attento poteva sembrare un delicato bacio, ma io sapevo che quel gesto comprendeva una serie di parole, veloci come il vento e ad un livello tanto basso che persino Odi forse faceva fatica ad afferrare.

Un messaggio solo per loro due, una rassicurazione o una preoccupazione che non si sentiva di condividere con noi ragazzini; l’ennesimo gesto che mi faceva salire il sangue al cervello.

Odi gli sorrise e gli posò l’altra mano sulla guancia, poi lui si voltò verso di noi, Gotaro era scivolato dalla roccia e si trovava ora seduto ai miei piedi che si massaggiava le natiche.

«Più avanti c’è un edificio in condizioni discrete, non ci serviranno le tende», disse guardandomi dritto negli occhi, ovviamente non gli era andata giù che avessi tirato fuori argomentazioni ragionevoli quando gli avevo detto che la mamma aveva bisogno di dormire più comodamente date le sue condizioni.

Odi aspettava il terzo figlio ed era nella fase della gravidanza dove ancora nulla era certo, si avvicinava al terzo mese ed ultimamente era sempre stanca ed affaticata, di certo dormire in una tenda non aiutava.

Non gli risposi, ma tanto lui aveva già ripreso a camminare tenendo la mamma per mano e accompagnandola con dolcezza e presa ferma per non farla scivolare sull’asfalto viscido; io e Gotaro li seguimmo senza fiatare, ma intimamente felici di poter dormire sotto un vero tetto.

Come al solito il nostro cammino era accidentato, sdrucciolevole e scivoloso.

Non era una prerogativa di quel posto, in realtà Ardesia era un mondo piuttosto ostile. Si divideva in due sole fasce climatiche pressoché identiche: una fascia piovosa ed una fascia nebbiosa; entrambe umide da fare schifo, entrambe che ti lasciavano i vestiti appiccicati addosso ed i brividi.

C’erano due continenti con tre paesi per fascia: Nurlan, all’estremo nord, dove la pioggia era mischiata a chicchi di grandine grandi come il pugno di un uomo adulto; Nihon, dove la pioggia era accompagnata da tifoni devastanti e Oppsur che dava sull’immenso oceano che regnava al centro del pianeta, e le piogge venivano spesso insieme ai maremoti.

Nurlan, Nihon e Oppsur erano tutti collegati, formavano una mezzaluna che presentava le due punte rispettivamente a Oppsur e a Nihon.

Stessa identica conformazione si trovava nell’emisfero sud, quello nebbioso; al centro, decisamente più grande rispetto agli altri due paesi, in cui la nebbia era tanto fitta da sembrare solida c’era Summa, Akio era nato lì, e forse era questa la ragione della sua vista così acuta; io e Gotaro non c’eravamo mai stati, ma sapevamo che i nostri genitori vi erano vissuti fino alla nostra nascita.

A est di Summa c’era Nitra, nebbia e tifoni e ad ovest Otra, nebbia e maremoti.

Non proprio un pianeta ospitale, ma non si può scegliere dove nascere.