L'orso Bruno

by Angelica Gregorini

Erano le sette di sera quando scorgemmo una figura avvicinarsi in lontananza, ovviamente il primo ad avvistarla era stato Akio e le andò incontro.
Quando ci raggiunsero restai stupito da quanto fosse minuta la figura accanto a mio padre; si stava riparando sotto un grande ombrello rappezzato alla bell’e meglio, portava un lungo cappotto marrone scuro, pieno di tasche su un maglioncino verde, infilato in un paio di pantaloni neri e rovinati. Ai piedi un paio di stivali troppo grandi e quasi completamente ricoperti di fango.
Ma quello che veramente mi colpì fu il nero cupo degli occhi che risaltavano sul candore del viso, erano così scuri che non riuscii a distinguere la pupilla; nell’altra mano teneva un borsone anch’esso pieno di toppe.
Doveva avere più o meno la mia età ed iniziai a dubitare che potesse veramente aiutarci.
«Buonasera», disse con voce tesa, poi lanciò uno sguardo alla tenda dietro di noi: «Dove trovo la paziente?», stavo per esprimere i miei dubbi ma non ne ebbi il tempo, mio fratello e mio padre la scortarono nella tenda di mia madre ed io li seguii.
La ragazza si avvicinò a mia madre e le pose delicatamente una mano sulla fronte, poi tirò fuori qualcosa dal borsone e se lo infilò nelle orecchie, era un oggetto dalla forma bizzarra con un lungo filo dal quale pendeva una semisfera di metallo, glielo appoggiò sul torace dopo averlo scoperto quanto bastava; restò in ascolto per qualche secondo, cambiandogli posizione ad ogni respiro di Odi; poi annuì e si voltò verso di noi:
«È una semplice influenza, non mi sembra di sentire irregolarità da infiammazione nei polmoni; vi preparerò un infuso che dovrà bere due volte al giorno; vi raccomando di non farla affaticare»; la ragazza posò finalmente il borsone a terra e si sfilò il cappotto scoprendo lunghi capelli neri ed ondulati che riflettevano i bagliori del fuoco alle sue spalle; notai che le sue orecchie erano leggermente appuntite come quelle del suo assistente bambino; si spostò i capelli scoprendo il collo aggraziato.
Deglutii e distolsi lo sguardo imbarazzato, lei non sembrò farci caso e riprese a rovistare nel borsone; non appena si tirò su la manica destra del maglione mio padre l’afferrò per un polso e la scaraventò fuori.
La ragazza rotolò nel fango per poi voltarsi stupita, né io né Gotaro riuscivamo a capire cosa stesse succedendo, ma mio padre avanzava minaccioso verso di lei. Lessi la paura nei suoi occhi mentre si tirava indietro strisciando senza distoglierli da mio padre; lui l’afferrò di nuovo per un braccio e la strattonò in piedi:
«Chi sei? Che cosa vuoi da noi?», le chiese, la ragazza sembrò riprendersi dallo shock e ringhiò tra i denti: 1Fino a prova contraria siete venuti voi a cercarmi!», cercò di divincolarsi, ma la presa di Akio si fece ancora più forte e le sfuggì una smorfia di dolore.
«Chi ti ha mandato?», le chiese con tono cupo.
«Non so di cosa stai parlando.
«Sei un Mannaro, giusto?», le chiese ancora mio padre; la ragazza sgranò gli occhi e si guardò il tatuaggio che le marchiava l’avambraccio che lui teneva stretto, l’inchiostro formava una spirale che le avvolgeva l’avambraccio fino all’attaccatura del polso, un’unica linea che le si attorcigliava intorno, non so per quale motivo ma quella semplice linea nera mi trasmetteva un’insopportabile sensazione di oppressione.
«Ti sbagli, non so davvero di cosa tu stia parlando»; la risposta fece infuriare mio padre che la strattonò di nuovo ed urlò: «Non osare mentirmi, cagna!
Quelle parole ebbero un effetto inaspettato, gli occhi della ragazza si strinsero, tirò indietro il capo e gli assestò una testata sul naso; mio padre mollò la presa per portarsi le mani al viso, lei gli diede una ginocchiata nello stomaco. Gotaro si lanciò verso di lei per bloccarla, ma la sua figura stava crescendo, i lunghi capelli neri si accorciavano ed il torace si dilatava; intercettò mio fratello e con il braccio diventato enorme e ricoperto di peli lo colpì facendolo ruzzolare nel fango.
Ora davanti a me si stagliava un’enorme orsa nera che mi fissava in attesa, rimasi pietrificato; lei si voltò e fece per scappare, quando mio padre mi urlò di non lasciarla andare mi lanciai su di lei.
Mi abbassai in tempo per schivare gli artigli che mi avrebbero portato via metà della faccia e le afferrai le zampe inferiori nella speranza di farle perdere l’equilibrio; ci riuscii ma in cambio ricevetti un enorme calcio nel petto e volai via.
Mio padre tornò in piedi, prese una siringa dal cinturone; l’orsa lo guardò terrorizzata e cercò di rimettersi in piedi, ma la sua mole ed il terreno viscido glielo rendevano tremendamente difficile.
Akio le si avvicinò e le sferrò un calcio sul muso; l’animale accusò il colpo, ma con una zampa afferrò l’altra gamba di mio padre e lo fece rovinare a terra; la siringa cadde poco distante da lui.
Davanti a me non c’era più l’orso, ma la ragazza di prima che si buttava in avanti per prendere la siringa e probabilmente darsela a gambe.
Fu in quel momento che vidi mio fratello muoversi veloce; le diede un pugno sulla mascella e lei perse i sensi.


Si risvegliò dopo un’ora, un grosso livido iniziava a formarsi dove era stata colpita; l’avevamo legata stretta per impedirle di trasformarsi: «Se non hanno spazio per crescere non ci riescono», ci aveva detto laconico nostro padre.
Iniziò ad agitarsi mentre con lo sguardo cercava di capire dove si trovasse, quando i suoi occhi incontrarono i miei trasalì e scivolò su un lato; mi chinai per rimetterla seduta e lei s’irrigidì aspettandosi di essere colpita di nuovo. Mantenni la presa sulle spalle per qualche secondo mentre le esaminavo il viso; gli occhi neri circospetti non mi lasciavano un attimo: «Non ti muovere, vogliamo farti delle domande, se non sei una minaccia non ti verrà fatto altro male, capito?», lei annuì ed io uscii per chiamare mio padre.
Un gatto nero sgusciò tra le mie gambe e fece per correre via veloce come il vento, ma mio padre lo fermò con un sonoro calcio sul muso che lo rispedì dentro.
«Mai lasciare da solo un Cane Mannaro, neanche se lo tieni legato», aggiunse entrando nella tenda.
Il gatto non c’era più, ma la ragazza era stesa a terra e si massaggiava il viso; mio padre alzò le mani e disse:
«Dimmi chi ti ha mandato e ti lascerò vivere.
«Tu devi dirmi chi ti ha mandato! Siete venuti voi a cercarmi!», urlò lei in risposta mettendosi in posizione d’attacco.
«Ci serviva un medico per mia moglie, non un Cane che ci sbranasse!
«Non avevo nessuna intenzione di sbranarvi, testa di cazzo. Volevo fare il mio lavoro e tornare da mio fratello!», ringhiò lei tra i denti, poi una smorfia le piegò le labbra in un sorriso: «Potrete anche prendere me, ma lui non lo raggiungerete mai, sa di dover scappare se non sono di ritorno in due ore”» la ragazza rise apertamente: «Fatemi quello che volete, ma non ci avrete mai tutti e due!
Akio scosse il capo, sospirò e le disse: «Non ho alcuna intenzione di cercare tuo fratello.
La ragazza si tirò indietro guardandolo dubbiosa; l’espressione le aveva arricciato il naso increspando la pioggia di lentiggini che lo decorava; i capelli sporchi di fango le si erano attaccati sulla fronte sudata e sul collo.
Feci un passo verso di lei portando le mani in avanti: «C’è stato un malinteso.»