Odissea Nell'Haettudo

by Angelica Gregorini

Mi ci vollero quindici anni per capire come diamine orientarmi in quel Regno maledetto.

Non avrei mai immaginato quali sarebbero state le conseguenze delle mie azioni, ma non valeva la pena rimuginare sul passato.

Quel giorno avevo visto le anime della maggior parte delle persone con cui avevo vissuto volare via nello Yosal; non so per quale motivo io, invece, ero rimasto intrappolato lì ad un passo dai viventi, senza la possibilità di interagire con loro, senza un corpo a darmi sostegno.

La perfetta definizione di un’anima in pena, per quindici maledetti anni prima di capire come fare a spostarmi a mio piacimento. Quindici anni in cui la mia coscienza cresceva insieme alla mia anima.

L’Haettudo è il Regno di Mezzo, tra Ardesia e Yosal, dove le anime riposano fino alla fine dei tempi.

Di solito la transizione è molto rapida, forse questione di secondi, anche istanti in alcuni casi.

Ero morto, ma non del tutto a quanto pareva.

Sabotare il rituale mi era sembrata una buona idea, un’ottima occasione per dare a quelle persone quello che meritavano, in più avrei anche salvato un innocente; ma ora ne stavo pagando le conseguenze.

Se non si scherza con i Demoni, con il Sommo Demone ancor meno.

Ma avevo cinque anni all’epoca e non ero consapevole dei rischi.

Quello che il Sommo Demone non era riuscito a prendere da mio fratello l’aveva fatto scontare a tutti i presenti al rituale. Non avevo provato tristezza nel vederli bruciare tra le fiamme, nel vederli divorati dal loro Dio perché non erano riusciti a soddisfarlo. Anche il mio dolore era stato meritato, in fin dei conti quelle erano anche le mie vittime, ma non me ne pentii.

Quel gruppo di ipocriti esaltati aveva ricevuto la giusta punizione.

 

 

La vista di Ardesia dall’Haettudo era distorta, ancor più grigio di quanto quel mondo di merda non fosse per i viventi; la mia anima era stata risucchiata poco dopo aver visto che mio fratello era al sicuro.

Nessun sopravvissuto a parte lui; un neonato in una grotta di corpi carbonizzati, tra cui il mio facilmente riconoscibile.

Anche quell’uomo mi aveva notato una volta arrivato sul posto, non osai immaginare cosa potesse aver pensato, ma mi prese, mi seppellì e portò il bambino con sé.

Quanto avrei voluto che mia madre avesse potuto assaporare fino in fondo il suo fallimento, lei e le sue preghiere piene di devozione e sottomissione.

Che umiliazione doveva essere stata, ammazzata dal suo figliolo prodigio.

Uccisa da un bambino di cinque anni che doveva ereditare la sua carica come capo della Setta.

Il pensiero mi strappa sempre un sorriso.

 

Era una donna intelligente mia madre, ma era stata così accecata dal suo credo, così incredibilmente ingenua nel pensare che avrei seguito i suoi insegnamenti senza pormi domande.

Le domande non erano ben viste dalla Setta, le domande seminavano dubbi, ed i dubbi non erano concessi.

Esisteva una ed una sola verità, che era quella della Somma Sacerdotessa e non poteva essere contraddetta, pena la morte.

Avevo capito sin da subito in che ambiente ero nato, che tipi di persone erano quelle che mi stavano accanto, che cosa volevano e cosa si aspettavano da me; ed ero stato bravo, ubbidiente, addirittura remissivo e devoto a seconda delle necessità, e nessuno aveva dubitato del figlio della Sacerdotessa.

Un bambino incredibilmente intelligente, studioso e devoto.

Il figlio perfetto di una mandria di assassini fanatici.

Se avessero prestato maggiore attenzione si sarebbero accorti di quanto quelle qualità fossero reali e pericolose.

Non c’era stato giorno in cui non li avessi odiati, in cui non avessi rinnegato le mie origini e quel Demone che tanto amavano.

Imparai ad utilizzare il mio potere a tre anni, capii come realizzare un’arma affine alla mia anima a quattro; tra l’ammirazione di tutti aspettavo il momento opportuno per spazzarli via dal pianeta,

Il mio unico rammarico è stato di non riuscire a farli fuori tutti, ma non ho mai perso la speranza.

Doveva esserci una ragione se ero finito nell’Haettudo e non nello Yosal come tutti gli altri; un legame, nonostante non avessi un corpo, che mi aveva impedito di perdermi per sempre.

 

Il mio corpo avrebbe avuto vent’anni quando capii finalmente quale fosse quel legame.